DALLO STATUTO DEL CONTRIBUENTE ALLO STATUTO DEL VERIFICATORE FISCALE: LE TANTE IDEE DI FICIESSE PER UNA CULTURA FISCALE MODERNA, MATURA E CONSAPEVOLE - di Giuseppe Fortuna

venerdì 13 aprile 2001

Il giorno 11 aprile u.s. si è tenuto a Brescia un convegno sulla legge 27 luglio 2000, n. 212, nota come Statuto del contribuente con la partecipazione del “padre” della legge, l’On. Prof Gianni Marongiu.

Ficiesse ha partecipato con una relazione del presidente del Direttivo nazionale, Giuseppe Fortuna, dal titolo “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale”, che di seguito pubblichiamo.

Nel corso della relazione è stata annunciata una nostra nuova iniziativa: lo Statuto del verificatore fiscale.

 

1.  PREMESSA

Mi è stato assegnato il compito di commentare l’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, che si riferisce ai diritti e alle garanzie riconosciute al contribuente sottoposto a verifica fiscale.

Prima di entrare nel vivo del tema assegnato, desidero ringraziare vivamente l’Ordine dei Dottori Commercialisti di Brescia e la Confederazione Italiana Giudici Tributari (CUGIT) che hanno offerto all’Associazione Finanzieri Cittadini e Solidarietà (Ficiesse) l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista sullo Statuto del contribuente.

Per chi non la conosce, posso dire che Ficiesse è un’associazione culturale, composta da cittadini italiani che vanta, tra gli attuali 1300 iscritti, una fortissima presenza di appartenenti alla Guardia di Finanza, di tutti i gradi, compresi ufficiali dirigenti.

Tra le principali finalità dell’associazione penso che in questa sede due debbano essere sottolineate in modo particolare.

Innanzitutto, noi siamo nati per favorire il processo di modernizzazione dell’amministrazione finanziaria italiana, in generale, e della Guardia di finanza, in particolare, e per offrire a tutti i nostri associati, compresi quelli a status militare, un canale di comunicazione verso l’esterno attraverso il quale esprimere opinioni, idee e proposte di miglioramento.

In secondo luogo, noi ci vogliamo impegnare perché cambi in modo radicale il rapporto tra l’agente dell’amministrazione finanziaria e il cittadino-contribuente, rapporto ancora oggi in gran parte basato sulla soggezione, sul timore e sulla diffidenza reciproca.

Queste due finalità stanno solennemente scritte nel nostro statuto e costituiscono la parte principale del progetto di innovazione di Ficiesse: dobbiamo creare le condizioni culturaligiuridiche e organizzative perché siano resi ai cittadini servizi pubblici di standard pari o superiore a quelli dei principali paesi europei e perché, contemporaneamente, si diffonda nei cittadini una coscienza fiscale moderna, matura e consapevole.

Il tema di questo convegno, quindi, è perfettamente in linea con le finalità dell’associazione e ne sarà dato ampio risalto sul nostro sito “www.ficiesse.org” e nelle nostre pubblicazioni.

Deve essere chiaro, quindi, che quello che dirò in questa occasione non rappresenta l’opinione ufficiale della Guardia di Finanza, ma l’opinione dei numerosi verificatori fiscali che fanno parte di Ficiesse, molti dei quali sono inseriti negli organi direttivi nazionali e provinciali dell’associazione.

Prenderò contemporaneamente a riferimento, quindi, le circolari emanate dal Comando Generale delle Fiamme gialle e l’esperienza operativa dei nostri associati, per poi giungere ad alcune proposte che, secondo noi, potrebbero ulteriormente migliorare la legge.

 

 2. LO STATUTO DEL CONTRIBUENTE COME ELEMENTO DI ROTTURA E DI DINAMICITA’ DEL SISTEMA.

Prima di iniziare l’esame dei principali aspetti problematici posti dall’art. 12 della legge n. 212/2000, è opportuno osservare che lo Statuto del contribuente è certamente una norma di civiltà che introduce principi e regole da tempo consolidati in altri paesi democratici. Ma, proprio per questo, è anche una norma di rottura, un elemento di dinamicità che mette in crisi le antiche categorie giuridiche.

Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che l’attuale sistema tributario è ancora imperniato su principi e regole adeguate ad un paese di frontiera, qual era certamente l’Italia prima della caduta degli stati ad economia pianificata; un paese che si basava, infatti, prevalentemente sull’economia sommersa, sulla circolazione della ricchezza al portatore, su un segreto bancario praticamente impenetrabile agli agenti del fisco.

Da tali “equilibri” è derivata una legislazione tributaria e una “cultura tributaria” che, da una parte, con riferimento ai redditi di capitale, di impresa e di lavoro autonomo, si basa sulla presunzione di veridicità delle scritture contabili e, dall’altra, con riferimento all’accertamento delle imposte, su una strumentazione potestativa di tipo fortemente inquisitorio, visto che l’onere di provare l’evasione fiscale compete all’amministrazione finanziaria.

Questa situazione da circa dieci anni si sta evolvendo.

A dire il vero, il nuovo nel diritto tributario sta emergendo molto più lentamente che in altri settori dell’ordinamento. Pensiamo alle riforme del processo penale, che già negli anni ’80 da inquisitorio è stato trasformato in accusatorio, ma pensiamo specialmente – perché su questo punto tornerò nel corso della relazione – alle riforme in tema trasparenza dell’attività della P.A. e di partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo: mi riferisco a interventi quali la legge 241 del 1990, il decreto legislativo 29 del 1993, le cosiddette “leggi Bassanini” per il decentramento e per la semplificazione amministrativa.

Finalmente, con lo Statuto del contribuente, “il nuovo” apre una breccia anche nell’ordinamento tributario.

È chiaro, allora, che stiamo assistendo ad un vero e proprio conflitto di sistema tra le antiche categorie (tra cui, la concezione inquisitoria delle leggi d’imposta) e quelle nuove (la concezione paritaria e collaborativa tra privato ed ente impositore) di cui lo Statuto del contribuente costituisce l’avanguardia; corpi giuridici tra di loro inconciliabili che, tuttavia, in questa fase storica sono costretti a convivere in attesa che si stabiliscano i nuovi equilibri.

Questa contraddizione emerge in modo chiaro quando si analizzano le circolari con cui i vertici dell’amministrazione finanziaria hanno definito le prassi operative che le unità dipendenti devono seguire per dare attuazione alla legge 212 del 2000.

In questa sede mi riferirò, in particolare, alla circolare n. 250400 del 17 agosto 2000 del Comando Generale della Guardia di Finanza, nella quale si percepisce chiaramente lo sforzo (e, direi, l’imbarazzo) di camminare lungo un crinale strettissimo per riuscire a coniugare disposizioni ispirate a concezioni antitetiche del rapporto tributario ma che hanno tutte, comunque, il rango di legge ordinaria.

Io credo che si debba rivolgere un plauso a coloro che hanno predisposto tali disposizioni perché in esse emerge comunque la volontà di cogliere il nuovo e di dargli un contenuto non formale. Segno di lungimiranza, di sensibilità istituzionale, ma anche di capacità di elaborazione giuridica.

Noi di Ficiesse, che come soggetto privato siamo meno vincolati rispetto agli amici del Comando Generale, proveremo a illustrare tali disposizioni criticamente e magari a proporre qualche ritocco alla normativa in grado di allargare un sentiero che si presenta ancora un po’ troppo accidentato.

 

3. IL PRIMO COMMA DELL’ARTICOLO 12

Passiamo all’esame delle questioni di maggiore rilievo poste dall’art. 12 dello Statuto del contribuente.

Il comma 1 si riferisce alle verifiche effettuate nei locali in cui il contribuente esercita la sua attività. La legge dispone che tali interventi: 1) siano limitati ai casi in cui sussistano “esigenze effettive” di svolgere i controlli sul luogo; 2) siano svolti durante l’orario ordinario di esercizio dell’attività; 3) siano effettuati con modalità tali da arrecare la minore turbativa.

Secondo la circolare n. 250400 del Comando Generale della Guardia di Finanza le prassi operative del Corpo, definite con l’Istruzione sull’attività di verifica n. 1 del 1998, sarebbero già sostanzialmente in linea con tali prescrizioni.

L’opinione viene motivata considerando che l’istruzione prevede molteplici percorsi di indagine, aventi un diverso grado di invasività e che quindi il direttore della verifica e il capopattuglia sono in grado di contemperare l’interesse del contribuente alla minor turbativa con l’interesse dell’amministrazione a superare la presunzione di veridicità delle scritture contabili.

D’altra parte – prosegue la GDF – le stesse parole della legge sono rinvenibili nell’istruzione 1/1998 che a pagina 120 testualmente afferma “… le verifiche devono essere condotte con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile al regolare svolgimento delle attività del soggetto che vi è sottoposto ovvero alle sue relazioni personali, commerciali e professionali”.

Subito dopo la circolare afferma che le “effettive esigenze” di accedere nei locali aziendali ricorrerebbero ogni volta che si tratti di procedere a ricerche di documentazione contabile o extracontabile o a rilevamenti materiali che possono eseguirsi solo presso il contribuente; ad esempio: riscontro dell’esistenza di cespiti assoggettati ad ammortamento, rilevamento delle giacenze, controlli di cassa, identificazione dei lavoratori dipendenti, rilevazione di listini prezzi, rilevazione di consumi, rilevazione di dati strutturali a base degli studi di settore e così via.

L’insieme di tali disposizioni ci sembra, in verità, la parte meno convincente e meno coraggiosa della circolare in commento.

In realtà, a nostro avviso il comma 1 dell’art. 12 non ha la finalità di riconoscere veri e propri diritti in capo ai contribuenti sottoposti alle verifiche tributarie ma una funzione di tipo prescrittivo e di indirizzo generale per l’azione dell’amministrazione finanziaria nello specifico settore.

La norma impone alla Guardia di Finanza e agli uffici finanziari di improntare l’azione di ricerca delle prove ai principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità e di seguire, nello scegliere il concreto modulo operativo da adottare, la regola del minor sacrificio per il contribuente da controllare. Così, un’esigenza istruttoria che può essere soddisfatta con la richiesta d’informazioni o di esibizione di documenti non dovrebbe mai dar luogo a interventi nei locali aziendali.

Questa impostazione vale anche – e, direi, specialmente - per gli interventi “a sorpresa” che rappresentano ancora oggi la prassi normale per la maggior parte delle verifiche (non solo a carattere generale) della Guardia di Finanza, che sono poi gli interventi che recano la maggiore “turbativa” al contribuente.

È chiaro che, con la legislazione vigente, alla sorpresa non si potrà mai rinunciare quando si tratti di acquisire elementi di prova che possono essere alterati o dispersi (si pensi alle tracce di una doppia contabilità o alla presenza nei locali aziendali di lavoratori irregolari). Ma per alcune tipologie di controllo, ad esempio quelle collegati agli studi di settore o ai controlli intracomunitari, è ben possibile già oggi dare un congruo preavviso al contribuente.

Dobbiamo augurarci che in un futuro non troppo lontano anche il fisco italiano sia  messo nelle condizioni di utilizzare in via principale gli strumenti della richiesta di informazioni e della esibizione dei documenti e, solo nei casi di maggiore gravità, l’intervento “manu militari”.

Qualcosa in più, inoltre, la circolare avrebbe potuto dire con riferimento ai suggellamenti di carte e documenti in scatoloni di cartone, in armadi o in intere stanze; una prassi che continua ad essere seguita per tutta la durata della verifica dalle pattuglie della GDF e che espone il contribuente al rischio di sanzioni penali in caso di effrazioni accidentali.

 

4. IL COMMA 2.

Il comma 2 contiene un’altra disposizione di notevole delicatezza: il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che hanno determinato l’esecuzione della verifica, dell’oggetto che la riguarda, di farsi assistere da un professionista e di conoscere i diritti e gli obblighi che gli competono.

Si tratta – afferma la circolare della GDF - di una disposizione che rafforza il diritto del contribuente, preesistente allo Statuto, ad essere compiutamente informato in ordine alla legittimità dell’intervento ispettivo e dispone che le pattuglie debbano fornire un’informazione chiara e completa circa lo scopo del controllo. E, in effetti, le istruzioni sull’attività di verifica sono sempre state puntuali sull’argomento e i verbali del Corpo si segnalano per ricchezza di informazioni e per la grande analiticità.

Viene poi precisato ai reparti la necessità di mantenere riservato il piano investigativo della verifica e il segreto d’ufficio nei casi in cui l’intervento sia scaturito da attività di intelligence, cioè da notizie acquisite in via riservata a seguito di informazioni; dati, questi ultimi, aventi rilevanza esclusivamente interna.

La disposizione è condivisibile.

Il piano investigativo contiene, infatti, le successive linee di sviluppo dell’azione di controllo e indica i moduli di indagine da eseguire sia nei confronti del contribuente in verifica, sia di altri soggetti economici non ancora visitati. D’altra parte, qualcosa del genere è previsto anche dalla legge n. 241 del 1990. L’ultimo comma dell’articolo 24 di quella legge, infatti, contiene una disposizione che consente al responsabile del procedimento di mantenere la riservatezza sugli atti che potrebbero pregiudicare i risultati delle successive attività istruttorie.

Analogamente avviene per le attività di intelligence (tra le quali la gestione delle fonti confidenziali individuate o anonime) che rappresentano l’intima essenza dell’azione di una forza di polizia; la loro conoscibilità, infatti, è stata sottratta con il decreto ministeriale n. 603 del 29 ottobre 1996 al diritto di accesso previsto dalla stessa legge 241.

La conclusione del Comando Generale è che si deve comunicare al contribuente, fin dal primo giorno dell’intervento:

1) se si tratta di verifica centralizzata:

-  l’organo che ha attivato l’indagine;               

-  se possibile, il “criterio di selezione” (piano nei confronti di soggetti di rilevanti dimensioni, controllo integrato con il Ministero del lavoro a fini previdenziali e assicurativi,  piano di controllo sui fenomeni di inquinamento dell’economia legale, richiesta di mutua assistenza amministrativa proveniente da organo collaterale estero, ecc.);

2) se si tratta di verifica d’iniziativa:

-  la tipologia dell’attivazione (es.: attività informativa autonoma della GDF, segnalazioni di irregolarità provenienti da altri reparti, richieste degli uffici finanziari) ma soltanto se ciò non compromette la funzionalità dell’indagine.

Il punto di vista del Comando Generale, come abbiamo già detto, è assolutamente condivisibile.

Ci si potrebbe chiedere, però, se il contribuente sottoposto a verifica generale programmata da un determinato reparto della Guardia di Finanza abbia diritto di conoscere i criteri del suo inserimento nel programma annuale delle verifiche; peraltro, ci risulta che casi del genere si siano già presentati.

La nostra risposta è affermativa, ma con alcune forti limitazioni.

Le informazioni ricevute, infatti, non possono giungere né, ovviamente, a far conoscere i nominativi degli altri soggetti controllati o da controllare (informazione coperta dal segreto d’ufficio), né a discutere i criteri generali posti dal livello nazionale per indirizzare le scelte, né, infine, a sindacare le motivazioni che hanno indotto quello specifico reparto ad inserire il contribuente nel piano. Tali scelte, infatti, ci sembra appartengano ad un ambito di discrezionalità amministrativa di tipo puro e non tecnico, perché sussiste un potere di scelta in ordine all’agire che importa una valutazione e ponderazione di tutti gli interessi coinvolti.

Ciò non toglie che il contribuente potrebbe riscontrare, ad esempio, con riferimento alla sua posizione fiscale, l’erroneità o l’incompletezza di alcuni dei dati che hanno indotto il reparto ad effettuare il controllo. In queste ipotesi, il contribuente potrà certamente rivolgersi ai Comandi sovraordinati, oppure potrebbe attivare il Garante del contribuente, secondo le procedure indicate dal successivo art. 13 della legge; ma tutto questo - secondo noi - nella consapevolezza che non sarà possibile incidere sulla validità dell’accertamento.

 

5. IL COMMA 3.

Il terzo comma dell’art. 12 prevede il diritto di chiedere che l’esame dei documenti contabili possa essere effettuato nell’ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste.

Il Comando Generale sostiene, giustamente, che le disposizioni dell’istruzione n. 1/98, sul punto, sono coerenti con lo Statuto, ma aggiunge una cosa nuova: “ (…) la facoltà in esame – si legge nella circolare - il cui scopo consiste nel ridurre al minimo i disagi che dall’azione ispettiva possono derivare all’attività economica controllata, fa comunque salva la possibilità per i verificatori di operare autonomamente, in funzione delle peculiari esigenze organizzative del lavoro, la scelta di sviluppare l’attività di controllo presso i locali del Comando da cui dipendono.

Secondo il Comando Generale, perciò, i verificatori possono decidere di proseguire il controllo nei loro uffici anche contro il parere del contribuente ed anzi, come vedremo più avanti, questa diventerà la scelta normale per le verifiche di più lunga durata, vista la perentorietà del termine di 30 giorni per la conclusione del controllo (prorogabile fino a 60) stabilito dal comma 5.

La posizione della GDF è legittima perché anche prima dell’entrata in vigore dello Statuto la possibilità di svolgere la verifica presso il contribuente era configurata, dall’art. 52 del decreto iva (richiamato dall’art. 33 del decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi), come un potere dell’amministrazione e non come una garanzia per il soggetto controllato.

Semmai su questo specifico punto lo Statuto, per una volta, ha operato una scelta che non del tutto favorevole al contribuente, considerando che questi ha spesso un forte interesse ad assistere personalmente a tutte le fasi del controllo per seguirne l’evoluzione ed intuire per tempo eventuali sviluppi a lui pregiudizievoli, mentre oggi, specialmente per i controlli di maggiore complessità e durata, i verificatori tenderanno ad optare per il controllo in caserma.

Un’ultima considerazione.

Il contribuente ha diritto di “chiedere” che la verifica prosegua nello studio del professionista (il legislatore, infatti, usa la locuzione “può essere effettuato” non “è effettuato”); ne consegue che l’accoglimento dell’istanza dipenderà dalla valutazione di opportunità effettuata dal Comando operante.

 

6. IL COMMA 5.

Ma veniamo a quello che si presenta, tra tutti, come il diritto più controverso. La verifica non può superare i 30 giorni lavorativi, prorogabili di altri 30 nei casi di particolare complessità dell’indagine.

La circolare 250400 fornisce innanzitutto un dato.

Nel triennio 1997/1999 sulle quasi 30.000 verifiche generali concluse dalla Guardia di Finanza, 2.300 hanno avuto durata superiore a 60 giorni e i loro risultati sono stati mediamente molto superiori a quelli delle altre, più brevi.

Nonostante ciò il Comando Generale ha disposto che i responsabili delle verifiche improntino le decisioni in ordine allo sviluppo degli interventi non più soltanto ai consueti criteri di economicità e di produttività, ma anche all’esigenza di rispettare i termini temporali stabiliti dalla legge 212.

Quindi, basandosi sull’assunto interpretativo che la norma si riferisca esclusivamente alle giornate di lavoro effettivamente trascorse presso il contribuente, si suggerisce ai reparti di incentivare l’effettuazione delle ispezioni documentali presso gli uffici e anche di sospendere l’attività di verifica ogni volta che si debbano effettuare controlli di coerenza esterni.

Viene evidenziato, inoltre, che la proroga di ulteriori 30 giorni costituirà la regola per le verifiche a soggetti di rilevanti dimensioni, vista la particolare complessità ed estensione delle analisi e dei riscontri che devono essere necessariamente effettuati.

Ora, a nostro avviso la norma del comma 5 è quella che più di tutte ha bisogno di essere migliorata, perché dà luogo a tutta una serie di conseguenze, in danno sia del contribuente che dell’amministrazione che procede.

Se la sua ratio è quella di evitare che la verifica venga ingiustificatamente “trascinata” oltre i termini fisiologici, si deve ammettere che tali termini sono diversi per ciascuna tipologia di procedimento ispettivo.

Intendiamo dire che 30 giorni sono un nulla per revisionare la contabilità di un soggetto di rilevanti dimensioni e sono invece decisamente troppi per una verifica da studi di settore e per la maggior parte delle verifiche parziali.

In tutti questi casi - che, si badi bene, rappresentano situazioni normali e non eccezionali - la disposizione si dimostra completamente inidonea a raggiungere il suo scopo.

Gli stessi accorgimenti suggeriti dal Comando Generale ai reparti operativi del Corpo ne dimostrano il difettoso funzionamento. È chiaro, infatti, che, come ho già detto, effettuare le attività di controllo negli uffici piuttosto che nei locali aziendali non facilita il contribuente che vorrebbe seguire da vicino l’evoluzione dei controlli. Inoltre, per rispettare il termine perentorio imposto dallo Statuto, i reparti del Corpo saranno obbligati ad impiegare un numero di verificatori superiore a quello strettamente necessario, con un risultato fortemente negativo proprio in termini di invasività. Per non dire delle situazioni riguardanti possibili ipotesi di reato tributario per le quali i militari potrebbero tendere ad attivare immediatamente l’indagine penale.

Questo dal punto di vista dell’interesse del contribuente.

Per l’amministrazione, l’effetto più pernicioso riguarda, senza dubbio, i soggetti di rilevanti dimensioni.

ATTENZIONE: mantenere la disposizione in parola com’è adesso equivale, a nostro avviso, ad impedire un controllo tributario credibile nei confronti delle grandi imprese. Risultato che non era certamente nell’intenzione del legislatore.

Questo va detto con grande chiarezza: NON È POSSIBILE, IN 60 GIORNI, SVOLGERE IN MODO SERIO ED ESAUSTIVO VERIFICHE A IMPRESE CHE HANNO VOLUMI D’AFFARI NELL’ORDINE DELLE CENTINAIA DI MILIARDI.

Vorrei, a questo proposito, raccontare cosa avviene in un paese di cultura anglosassone. Una decina d’anni fa, ebbi occasione, con altri colleghi, di scambiare alcune idee in tema di controlli fiscali con alcuni dirigenti dell’amministrazione finanziaria australiana. Tra l’altro, chiedemmo loro quanto tempo durasse mediamente una verifica tributaria. La risposta fu: “Da due ore a due anni. Due ore, per i controlli speditivi di tipo parametrico che i nostri funzionari eseguono, a tappeto, con computer portatili e sistemi esperti. Anche due anni quando si tratta di operazioni intragruppo che possano avere effetti fiscali di alcuna delle 5/6 grandi holding australiane. In questi casi, infatti, dobbiamo essere preventivamente informati e apriamo un vero e proprio ufficio all’interno con nostri funzionari per partecipare alle operazioni e dare, in tempo reale, al top management l’opinione autentica (e immediata) dell’amministrazione”.

L’amministrazione finanziaria italiana forse non è ancora sufficientemente attrezzata per dare risposte di così elevata qualità, ma questa, secondo noi, è certamente la logica pragmatica e razionale verso la quale dobbiamo cercare di andare.

Ma per il momento, cosa possiamo fare?

Noi proponiamo una soluzione che ci sembra coerente sia con i principi generali dell’ordinamento che con la linea evolutiva e di modernizzazione indicata dallo Statuto del contribuente. Bisognerebbe ricondurre, per quanto possibile, il procedimento di controllo tributario, che è pur sempre un procedimento di natura amministrativa, nell’ambito degli istituti di garanzia della legge 7 agosto 1990, n. 241.

La 241, com’è noto, non impone alcun termine perentorio rigidamente predeterminato per la conclusione dei procedimenti amministrativi, ma segue una strada più flessibile per non pregiudicare nessuno degli interessi in gioco: né quelli privati, né tanto meno quelli pubblici.

Infatti, l’art. 2 della legge 241 impone alle pubbliche amministrazioni di determinare le diverse tipologie di procedimento e di stabilire successivamente, per ciascun tipo di procedimento, il termine in cui esso deve concludersi. E soltanto qualora non si provveda in tal modo, il termine è determinato, ex lege, in 30 giorni.

Questa è, secondo noi, la strada da seguire.

La Guardia di Finanza dovrebbe innanzitutto determinare le tipologie di verifica eseguite dai reparti e stabilire per ciascuna di esse dei limiti temporali di riferimento. Nella determinazione delle diverse tipologie si dovrebbe aver riguardo non soltanto al tipo di attivazione (verifiche centralizzate o verifiche d’iniziativa) e alla natura e le dimensioni del soggetto controllato, ma anche e specialmente ai diversi moduli ispettivi da adottare in ragione dei motivi di selezione e degli elementi eventualmente già in possesso del reparto operante. È chiaro, infatti, che il percorso ispettivo di una verifica segue tempi e modalità affatto dissimili a seconda che si tratti, ad esempio, di valorizzare elementi di prova già compiutamente acquisiti in sede penale e che devono “soltanto” essere riversati nel procedimento tributario, o se, viceversa, il soggetto viene selezionato per non aver mai ricevuto accertamenti fiscali, nel qual caso si eseguono controlli molto più lunghi e complessi simili, in qualche modo, alle attività di revisione dei conti. Se, poi, si verte in materia di applicazione degli studi di settore sarà sufficiente, nella maggior parte dei casi, individuare i motivi che hanno causato lo scostamento del risultato economico rispetto alla media del settore.

Il Comando o l’ufficio che dispone il controllo dovrebbe indicare, poi, sul foglio di servizio rilasciato in copia al contribuente all’inizio dell’intervento, il termine della conclusione di quello specifico procedimento di controllo. Un termine che sia espresso non in giorni ma in una data certa e che prescinda dal luogo di effettuazione dei controlli o dalle eventuali sospensioni. Infatti, quello che più interessa il contribuente non è tanto “dove” si svolge la verifica, ma di riuscire a chiarire la sua posizione nei confronti del fisco nel più breve tempo possibile; esigenza non soddisfatta dall’attuale formulazione della norma.

Anche qui, in caso di particolare complessità dell’indagine, il Comando procedente dovrebbe poter prorogare il termine e fissare un’altra data, magari per una volta sola e, ovviamente, sempre motivando la decisione nel provvedimento di proroga. La congruità dei termini potrebbe essere soggetta alla valutazione del Garante del contribuente, attivabile con le modalità indicate dall’art. 13 dello Statuto.

 

 7.  CONCLUSIONI: DALLO STATUTO DEL CONTRIBUENTE ALLO STATUTO DEL VERIFICATORE FISCALE

Come abbiamo visto, abbiamo davanti a noi molta strada da percorrere. Ma dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una strada di modernizzazione e di civiltà.

Ed è proprio per questi motivi che non posso concludere senza fare almeno un cenno ad un altro ostacolo che rallenta la nostra marcia verso l’innovazione dell’amministrazione finanziaria.

Leggerò alcuni passi di un atto prelevato dal sito internet della Camera. È la risposta del Ministro delle Finanze ad una interrogazione presentata dai deputati Cuscunà e Delmastro Delle Vedove, del gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale, sul fenomeno degli ufficiali che lasciano la Guardia di Finanza.

Ecco alcuni passi della replica dell’On. Delmastro Delle Vedove alla risposta del Governo:

Signor Sottosegretario – dice testualmente il parlamentare - la ringrazio per la sua risposta rispetto alla quale non posso dichiararmi soddisfatto. Non posso perché mi pare che io viva in un mondo diverso dal vostro: svolgendo io l'attività di avvocato penalista, spesso mi accade di entrare nelle caserme della Guardia di finanza per assistere qualche cliente che deve essere sentito in quella sede. Ebbene, vorrei che il ministro e tutti i sottosegretari facessero l'esperienza che capita a me e a tutti gli avvocati penalisti di questo paese. Si entra all'interno delle caserme, si parla con il sottufficiale delegato a compiere l'atto e se si osserva banalmente il computer ci si sente rispondere che è un PC personale comprato direttamente dal sottufficiale; se poi si cerca di capire il funzionamento della caserma, si viene a sapere che spesso la carta necessaria negli uffici viene comperata direttamente dagli uomini della guardia di finanza. Si assiste poi a qualcosa che è davvero inverecondo. Mi riferisco ai budget telefonici assegnati alle caserme della Guardia di finanza che sono in misura risibile rispetto all'attività che devono svolgere. Allora può capitare che un sottufficiale che deve fare una telefonata sia costretto a compilare una richiesta scritta da presentare al proprio superiore: pensate al dispendio di energie e di tempo e al senso del ridicolo per avere l'autorizzazione a fare una telefonata, in quanto si è superato il budget telefonico! (…) Signor sottosegretario, con tutte le belle cose che ha detto, non ha risolto nemmeno i problemi minimali, che però sono sostanziali, in quanto fanno sì che quelle persone vogliano lasciare il servizio: esse, infatti, hanno livelli retributivi che rapportati al loro grado di professionalità sono ridicoli. Non è immaginabile che chi ha una professionalità di quel tipo possa continuare a prestare quel servizio sapendo quello che il mercato (viviamo, infatti, in una società di mercato) può offrirgli qualora voglia svolgere un'attività libero-professionale anche minimale (ad esempio, la semplice tenuta della contabilità o delle buste paga). (…) una persona che riesca a districarsi nel dedalo di leggi e sovrapposizioni normative che avete regalato alla nostra nazione deve avere una sconcertante professionalità ed un elevatissimo grado di capacità! Signor sottosegretario, è bene che gli italiani lo sappiano: coloro che compiono atti di polizia giudiziaria debbono acquistare a proprie spese il codice di procedura penale; sarebbe come se Giovannino Agnelli, quando deve assumere un operaio alla FIAT Mirafiori, gli dicesse prima di passare dal ferramenta, per acquistare la chiave inglese con la quale dovrà svolgere il lavoro alla catena di montaggio! Questi sono i veri problemi rispetto ai quali le vostre affermazioni di principio cadono nel vuoto: quando si impone ad un sottufficiale della Guardia di finanza di comprarsi una risma di carta, vuol dire che siamo davvero - come si usa dire oggi - alla frutta o alla canna del gas! Non credo sia questo il modo di trattare un corpo la cui rilevanza è centrale nel mondo finanziario e produttivo del paese e che, tra l'altro, rende un servizio di primissimo piano in termini di professionalità nell'interesse dello Stato e con grande spirito di servizio.”

Quello che afferma l’onorevole Delmastro Delle Vedove è drammaticamente VERO. Nell’amministrazione finanziaria i verificatori fiscali sono ancora costretti, per lavorare, a comperarsi i ferri del mestiere, ad abbonarsi a loro spese a quotidiani e riviste specializzate, ad usare computer personali e, spesso, ad “elemosinare” dal contribuente carta e fotocopie.

Nella Guardia di Finanza, poi, il personale addetto alle verifiche percepisce mediamente stipendi che si aggirano sui 2 milioni e mezzo al mese, si vede retribuire una parte minima delle ore di straordinario prestate e quando chiude una grossa verifica non riceve alcun premio in denaro collegato al risultato ma – se è fortunato – un elogio scritto da appendere al muro, mentre l’Agenzia che concluderà l’accertamento con adesione sulla base di quella stessa verifica vedrà incrementato il suo fondo incentivante di somme davvero cospicue, pari al 2% del maggior riscosso.

Una situazione paradossale, iniqua e offensiva per questa importante categoria di lavoratori.

 


Tua email:   Invia a: