"QUESTO E' SUCCESSO A ME" (di Cristian Martin)

mercoledì 20 dicembre 2006

Pubblichiamo il documento inserito sul forum pubblico di Ficiesse (www.ficiesse.it) da Cristian Martin, finanziere in servizio a Como ingiustamente arrestato il 20 settembre 2006 nell’ambito di un’inchiesta su presunte intercettazioni illecite.

 

Si tratta di una testimonianza che oltre a essere particolarmente toccante, ci sembra indicativa di un clima interno e di un clima esterno al Corpo sui quali riteniamo assolutamente necessario svolgere con urgenza alcune ATTENTE RIFLESSIONI, che ci riserviamo di fare nei prossimi giorni anche sulla scorta delle indicazioni che stanno emergendo, numerose, nel forum.

 

Nel frattempo, noi tutti di Ficiesse esprimiamo al finanziere Martin la nostra più affettuosa solidarietà, unitamente all’ammirazione per la forza d’animo e la grande dignità dimostrata in questa durissima occasione da lui e dalla sua splendida Famiglia. Auguri, Cristian, per il più sereno dei Natali nell'affetto avvolgente dei tuoi cari.

 

Chi volesse scrivere al finanziere Martin può farlo all’indirizzo di posta elettronica cricmarti@tin.it.

 

“QUESTO E’ SUCCESSO A ME”

 

di Cristian Martin

 

Ore 4,50 del 20 settembre 2006, vengo svegliato dal campanello; mi alzo e penso “Chi sarà mai a quest’ora?”
“Martin?”
“Si - rispondo io - chi è?”
“Finanza, scenda dovremmo parlarle”
Faccio le scale e penso “Cosa vorranno a quest’ora da me?”
Arrivo al cancello e il Tenente, dopo avermi mostrato il tesserino e il decreto di perquisizione mi dice: “Dovremmo procedere ad una perquisizione della sua abitazione”.
“Non so cosa cerchiate, ma andiamo pure (tra me e me penso “l’unica cosa che può essere successa è che, navigando in internet, sono andato su qualche sito che non dovevo andare, anche se non ci vado mai)”.
Arriviamo nel mio appartamento e il tenente mi fa vedere il decreto di perquisizione dove oltre al mio nome vedo che c’è anche quello di un collega che lavora in Procura presso il Tribunale. I reati che mi vengono contestati sono CORRUZIONE e RIVELAZIONE D’ATTI D’UFFICIO. Il tenente mi dice che è un mio diritto farmi assistere da una persona di mia fiducia. Non so ancora cosa cerca questa gente a casa mia, ma comunque, alle 5 di mattina telefono al mio amico Alvaro, il quale è avvocato e almeno controlla se la procedura è corretta, visto che fortunatamente nella mia famiglia gli avvocati sono ancora degli “sconosciuti”. Gli chiedo se può venire, spiegandogli che devo subire una perquisizione e avrei bisogno della sua presenza.
Mia moglie prepara un caffè, intanto io guardo con insistenza la finestra per scorgere i fari della macchina di Alvaro, perché sono curioso di sapere cosa stanno cercando.
Dopo un attimo finalmente arriva Alvaro. Gli viene fatto leggere il decreto e per lui è tutto a posto.
Inizia la perquisizione. Io, il tenente e un finanziere andiamo nella mansarda dove c’è il mio PC, e li il tenente mi chiede: “Non ha niente che abbia attinenza con lo SDI (la banca dati interforze).” “No, ho solo la copia di un dischetto, che altro non è che il manuale di istruzioni della banca dati che adopero ogni giorno e sulla quale devo saper lavorare”.
Continua la ricerca di “qualcosa”. Cerca, cerca e io ancora non so cosa. Fino a quando inizio a perdere la pazienza e allora dico: “Adesso ditemi che cazzo state cercando e io ve lo do. Ma mi dovete dire cosa state cercando”. Allora il tenente mi dice: “Non sa nulla di tabulati SDI?”

“No” rispondo io. A questo punto la perquisizione continua nelle altre stanze della mia abitazione, mi viene sequestrato il computer, ma assolutamente non viene trovato niente. Anche perché non c’è niente da trovare.

Inizia a suonare anche l’allarme di casa, io mi affaccio al pianerottolo e trovo mia suocera terrorizzata che mi chiede cosa stia succedendo, perché ha sentito armeggiare nella cassaforte. Con i tempi che corrono ha paura che ci siano i ladri e ha fatto suonare appositamente l’allarme. La “tranquillizzo” dicendole che è la Finanza che mi sta facendo una perquisizione.
Dopo un po’ mi viene detto che dobbiamo andare presso l’ufficio dove lavoro al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Como. Quindi, saluto mia moglie e le dico: “Ciao Amore, ci vediamo più tardi, appena mi sbrigo con questo equivoco”. Lei mi risponde scherzando: “Non è che ti portano in prigione?” “Ma figurati”, rispondo io, non sapendo che quella era la mia destinazione finale.
Saliamo in macchina, destinazione Nucleo. Il mio sentimento è tra il meravigliato e lo stupito per una situazione assurda che, dentro di me, penso si risolverà subito.
Arriviamo in caserma e il tenente avvisa il piantone di chiamare il comandante del Nucleo. Io intanto aspetto “tranquillo”. Dopo un po’ arriva il capitano che comanda il Nucleo in assenza del colonnello. Il tenente ed il capitano vanno in una stanza a parlare in privato e si trattengono alcuni minuti, dopodiché ritornano e dicono che devono visionare l’ufficio dove lavoro.

Apro la porta dell’ufficio e i militari guardano un po’ vicino alla mia postazione del computer, ma non sanno cosa cercare. A questo punto ho capito un po’ la situazione: io ho fatto delle interrogazioni al terminale per il collega in Procura il quale ne ha fatto un uso non appropriato. Subito fatto, le interrogazioni le faccio solitamente dopo aver ricevuto una richiesta scritta, che sicuramente è tra quelle conservate tra le richieste evase. Allora dico: “Guardiamo tra le richieste evase, sicuramente ci saranno anche quelle di quel collega”. “No, non si può toccare niente”. 
Il tenente mi chiede dove è la mia pistola e io rispondo che la tengo nel mio armadietto personale. Mi dice se gliela consegno, in quel momento e solo in quel momento inizio a chiedermi cosa stia realmente succedendo e chiedo “candidamente”: “Ma in che posizione sono?”
“Dobbiamo eseguire un’ORDINANZA DI CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE”. Il mondo mi cade addosso. Ma come, non ho fatto niente di male, l’ho fatto per lavoro, ci sono le prove con le richieste firmate che “voi” non guardate e io devo andare in carcere?
Allora mi rivolgo al capitano e gli dico: “Capitano questa storia è assurda, lei deve telefonare a tutti i superiori per fermare questo “incubo” perché anche solo un minuto, un’ora o un giorno di carcere per un innocente rappresenta un errore irreparabile”.
Non mi capacito di quello che sta succedendo proprio a me che ho condotto la mia vita sempre onestamente. Essere accusato di aver fatto qualcosa, sapere di non aver fatto niente e pensare che è partito un meccanismo che nessuno è in grado di fermare è la cosa più brutta che c’è.

Esco nell’atrio ed è l’ora che i colleghi arrivano al lavoro, la notizia del mio arresto è già sulle bocche di tutti, increduli assistono a questa mia umiliazione.

Prima di salire in macchina dico ad un collega che è appena arrivato: “Mi stanno arrestando”. “Non prendermi per il culo” risponde lui. “E’ vero”.

Mi viene un “magone “ ma vado in macchina e partiamo verso Ponte Chiasso per fare gli atti. Arrivati a Ponte Chiasso andiamo in una stanza dove c’è un gran via vai di gente che è intenta a scrivere, a “verbalizzare”. Io sono seduto e dentro di me provo una umiliazione ed una rabbia indescrivibili. Dopo un po’ vengo invitato ad andare nella stanza dove mi vengono fatte le fotografie per la scheda segnaletica e mi vengono cosparse le mani di inchiostro per prendermi le impronte digitali. L’umiliazione e la rabbia salgono ancora, quelle situazioni le avevo solo viste nei film, mai e poi mai avevo immaginato che avrei potuto provare quella terribile esperienza sulla mia persona, soprattutto non avendo fatto niente. Torniamo nella stanza dove il tenente sta facendo il verbale, i colleghi “posano” lo sguardo su di me pensando chissà cosa.

Penso che solo io e pochissimi altri sappiamo che in questa situazione non c’entro niente e tutta questa storia non sarebbe iniziata se solo mi fosse stata posta la semplicissima domanda “PERCHÈ HAI FATTO QUELLE INTERROGAZIONI?”. E io avrei potuto rispondere serenamente che mi erano state chieste e che le avevo fatte perché è la mia mansione di terminalista che lo prevede.

Sento che tutti mi guardano con l’occhio di chi pensa “Se l’hanno arrestato qualcosa avrà fatto”.

Mi vengono fatti firmare gli atti appena compilati e anche la rinuncia al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere in favore del carcere di Vigevano. A questo punto penso che per andare in carcere mi servono dei vestiti, della biancheria ed allora ad Alvaro tocca questa delicata “missione”: informare mia moglie che devo andare in carcere. Penso a tutta questa situazione “del cavolo”, penso alla reazione di mia moglie a questa notizia, penso ai mie figli e la rabbia si mescola alla rassegnazione.
Dopo un po’ Alvaro ritorna con il borsone; gli chiedo come ha preso mia moglie la notizia, lui mi risponde che non riusciva a credere a quello che lui le stava dicendo. Mia moglie mi conosce dal 1989, il nostro rapporto è basato da sempre sulla fiducia, lealtà, onestà. VALORI oramai in via di estinzione ma che NOI mettiamo sempre in primo piano nella nostra vita quotidiana nei rapporti con gli altri e che soprattutto cerchiamo di insegnare ai nostri figli.
Dopo un po’ andiamo verso la macchina che mi deve condurre al carcere, io fino all’ultimo spero che l’incubo finisca, spero che qualcuno mi dica che hanno capito l’errore che stanno commettendo, che mi chiedono scusa e che posso tornarmene a casa. Ma questo non succede, la macchina parte con tanto di lampeggiante e sirene spiegate. Come nei film, come per i criminali.
Io non ho nessuna fretta di arrivare naturalmente, ma dopo un po’ eccoci al carcere di Vigevano, località Piccolini. La sensazione che provo è indescrivibile, un misto di paura verso un luogo che neanche per servizio ho mai conosciuto, rabbia per il fatto che devo andarci pur non avendo fatto niente, Ed una grande, grande umiliazione personale.
I militari che mi hanno accompagnato se ne vanno e mi lasciano”in custodia” ad una guardia. Vengo accompagnato subito a fare le classiche foto segnaletiche e le impronte digitali (ancora?). Poi vengo accompagnato dal direttore del carcere il quale mi dice che non vuole sapere il perché io sia lì. Ma io insisto per spiegargli la situazione. Assieme al direttore c’è lo psicologo del carcere che mi guarda fisso negli occhi. Mi chiedono come sto e io rispondo che sono incazzato nero. Il direttore mi dice che qualsiasi problema ci sia, lui è a disposizione. Il problema è che lui, nonostante la sua buona volontà, non può fare per me quello che io desidererei lui facesse. Vengo accompagnato in una stanza dove mi vengono date le lenzuola, una ciotola in acciaio inox, delle posate di plastica, uno spazzolino da denti, un bicchiere ed un recipiente tipo caraffa di plastica bianca. Mi viene chiesto di togliermi la cintura dei pantaloni, l’orologio, il braccialetto e tutto quello che può essere “pericoloso”, comprese le scarpe che avevano un bottone di metallo.
La mia “valigia”(un sacco di plastica nero) è pronta, vengo accompagnato in cella, singola, con qualche cicca per terra, non pulitissima, ma almeno sono da solo.
Il rumore delle chiavi è nuovo al mio orecchio, il rumore della libertà; libertà che mi è stata tolta ingiustamente.
Entro nella cella e dietro di me si chiude il portone che è composto da una porta con le sbarre ed un ulteriore portone che mi isola ulteriormente dal corridoio, resta solo una misera finestrella che permette agli agenti di guardare dentro cosa fa “il carcerato”.

Il bagno è all’interno della cella, nel water c’è un “ricordino” dell’inquilino precedente. Tiro l’acqua, ma non funziona, allora prendo il recipiente di plastica bianca che mi è stato dato e pazientemente verso l’acqua dal rubinetto al recipiente e poi al water, operazione che con una decina di “bicchierate” mi consente di liberare il water.
Decido di preparare il letto, tolgo le lenzuola dal sacco nero e le metto su un materasso di gommapiuma, alquanto sporco. Penso “Chissà chi ha accolto prima di me”. L’operazione dura poco, poi inizio a guardare fuori da una finestra, naturalmente con sbarre.

Il mio pensiero fisso è alla famiglia, a mia moglie, a quello che deve subire, anche perché io so come sto vivendo questo momento, ma non posso immaginare come lo possa vivere lei. Deve gestire una situazione con due figli piccoli a cui qualcuno “ha rapito” il padre.
Dopo un po’ viene una guardia e mi dice che devo andare a fare la visita medica,la porta della cella si apre, vengo accompagnato in infermeria passando da due portoni che vengono aperti e chiusi dopo il mio passaggio, i corridoi sono vuoti e lunghi, io non parlo, vorrei gridare a tutti che sono li dentro per errore. Arrivo in infermeria e trovo una dottoressa che mi chiede come va. Rispondo che sono incazzato nero perché sono in carcere e non so neanche il perché. Mi dice “Non sa quanto la capisco”. Parole sicuramente dette in buona fede, ma penso che nessuno che non ha provato quello che sto provando io può capirlo il mio stato d’animo.
La dottoressa prende l’attrezzo per misurarmi la pressione e dopo aver visto il risultato sicuramente “sballato”, mi dice: “Deve stare calmo, calmo”. E’ una parola, io vorrei spaccare tutto, altro che stare calmo; mi vengono chieste per l’ennesima volta durante la giornata informazioni circa le mie generalità, la mia famiglia, le malattie o i problemi di salute che ho avuto, rispondo rassegnato a tutte le domande che mi vengono poste ma alle quali mi sembra assurdo dover rispondere.
Finita la visita vengo riaccompagnato in cella, la n. 16, quella dei “nuovi giunti”. Guardo di nuovo fuori dalla finestra, ripenso ancora all’assurdità della situazione in cui mi trovo, mi viene un “magone”che trattengo a stento.
Dopo un attimo una voce dalla finestrella mi dice: “Mangi?”. Fame non ne ho, ma chiedo cosa c’è. Due fette di prosciutto nella ciotola che mi è stata data mi bastano. Mi siedo e mangio pensando all’umiliazione che provo per ogni momento che sto passando in un luogo che non è adatto ad un INNOCENTE.
Dopo un attimo ho finito. Non so che ore sono, guardo fuori, c’è ancora un po’ di sole, saranno le sei. Forse. Mi metto vicino al portone della cella aspettando che passi qualcuno. “Scusi …”, dico ad una guardia che passa davanti alla finestrella, ma o non mi ha sentito o ha fatto finta di non sentirmi. “Scusi”, ripeto al passaggio di un’altra guardia. “Cosa c’è?” risponde quasi seccato. “E’ possibile avere qualcosa da leggere per piacere?”

Dentro di me provo una rabbia indescrivibile, mi sento come un “barbone” al semaforo che chiede l’elemosina. “Un momento” risponde lui.Dopo un attimo arriva un ispettore che con una cartella in mano e mi dice: “Lei è in isolamento giudiziario, non può avere radio, televisione, giornali e non può leggere niente.” Sto per scoppiare, inizio a piangere e penso che tutto questo è assurdo, sono in prigione per sbaglio, non ho fatto niente e non posso neanche avere un libro per “evadere” almeno con la mente da questo pensiero ossessionante che mi perseguita costantemente.
La cella si apre, vengo chiamato in ufficio dall’ispettore che mi fa sedere, sto ancora piangendo, lui dice di calmarmi; io voglio raccontargli la mia vicenda perché è una situazione molto pesante per me, vorrei che tutti sapessero come sono andate veramente, perchè intimamente mi dà fastidio che gli occhi che posano lo sguardo su di me possano vedermi come un corrotto, un venduto, o chissà cosa.

L’ispettore non vuole entrare nel merito della vicenda,comunque sul tavolo c’è un libro: IL CODICE DA VINCI, me lo presta. Lo ringrazio, vengo riaccompagnato in cella. La lettura non dura molto, perché nella cella non c’è la lampadina e il sole se ne sta per andare, dunque non riesco più a leggere, ma almeno ho qualcosa da leggere anche per il giorno successivo.
E’ buio, la luce entra dalla finestrella della porta, ogni tanto qualcuno viene a sbirciare per vedere che tutto proceda senza “inconvenienti”. Non dormo un granché, penso a casa mia, moglie, figli, situazioni venutesi a creare per la frettolosità di chi ha indagato, di chi ha firmato un decreto basato solo su conclusioni affrettate e non verificate che sicuramente a loro non avrebbero creato neanche un lieve “fastidio”, ma che a me e alla mia famiglia sconvolgono la vita.
Il giorno dopo, giovedì 21 settembre, “immergo” la testa nella lettura, non voglio farmi prendere dai pensieri, non voglio pensare ad una situazione che mi vede impotente, altrimenti rischio di arricchire lo sconforto e la rabbia; mi sono “chiuso a riccio”, rifiuto la realtà, anche se è dura, la testa torna sempre alla mia famiglia.
Nel pomeriggio, arriva un agente che mi chiede se voglio lavarmi, io gli rispondo di no, ma non sono troppo convinto (vorrei fare la doccia, ma penso a dove mi avrebbe portato, penso ad una doccia come quella dei film con il vapore e che “qualcuno” ti pianta un coltello alle spalle). Dopo un attimo torna e mi chiede perché non voglio fare la doccia, poi mi rassicura e mi dice che sono da solo, per cui vado almeno a lavarmi e scarico un po’ di tensione.
Torno in cella, leggo ancora un po’ fino che la luce del sole me lo consente interrompendo solo per mangiare una fetta di prosciutto, poi mi stendo nella branda e cerco di addormentarmi.....

Durante la notte non dormo molto, ma spero che oggi (venerdì) verrò sentito dal P.M.; infatti alle dieci mi viene comunicato che da lì a poco verrò ascoltato, mi sento teso, mi rendo conto che devo spiegare una situazione nella quale non c’entro niente e devo convincere una persona della mia totale estraneità ai fatti, ma potrebbe anche non credermi, per cui devo dipendere dalla decisione di un altra persona che dispone della mia “sorte”.
Vengo portato in una stanza dove incontro il mio avvocato, Fulvio, la prima faccia amica da due lunghissimi giorni a questa parte, la prima persona che mi può confortare e mi può dare notizie della mia famiglia.
Aspettiamo un paio di ore, dopo di che veniamo chiamati dal P.M., l’interrogatorio ha inizio, la mia premessa è questa: “Vorrei che ci fosse la macchina della verità al fine di chiarire questa brutta storia, fatemi tutte le domande possibili tanto sono in grado di rispondere senza problemi”. L’interrogatorio prosegue e alla fine Fulvio, il mio avvocato, mi rassicura dicendomi che secondo lui tutto è andato nel migliore dei modi. E’ una cosa strana dover essere contenti di essere riusciti a far capire a chi ti ha messo in carcere che tu non c’entravi niente, si chiama “magra consolazione”, comunque mi sento un po’ meglio, un po’ più fiducioso che questo brutto momento possa finire al più presto.
Mi preparo mentalmente a passare in cella anche il sabato e domenica, confidando che lunedì o al massimo martedì avvenga la mia scarcerazione, invece sabato verso le 11, sento un agente che nel corridoio pronuncia il mio nome “Cristiano Martin”. Salto in piedi e dico: “Sono io”. “Si prepari che fra un po’ esce, è arrivato l’ordine di scarcerazione”.

In quel momento ho provato una gioia indescrivibile, ho iniziato subito a rimettere nel sacco nero le quattro cose che avevo tolto. La cella si apre, mi vuole il direttore che mi comunica ufficialmente che sono libero e mi dice che lui e lo psicologo, dopo avermi visto e sentito nel giorno del mio arrivo in carcere, avevano capito subito che ero innocente e proprio per quello avevano avuto più paura che io potessi fare qualche gesto estremo. Perché sapevano che era una condizione molto più difficile da sopportare da parte di chi non ha fatto niente.
Mi vengono ridate le mie cose, portafoglio, orologio, braccialetto, scarpe e sono pronto per uscire. Mi lascio alle spalle il portone del carcere e mi ritrovo nel parcheggio dove c’è la fermata del bus, li aspetto mia moglie che nel frattempo è stata avvisata del mio rilascio. L’attesa dura un’ora circa durante la quale mi godo la libertà.
Arriva mia moglie con i miei amici: Alvaro, Giulio e Fulvio, la commozione è generale, ma subito iniziamo a scherzare su questa storia assurda e ci dirigiamo verso casa, non vedo l’ora di riabbracciare i miei figli.
Durante il viaggio di ritorno parliamo di quello che è successo, dei giornali che hanno diffuso la notizia corredata di nome, cognome, indirizzo, e ogni minimo dettaglio sulla mia famiglia, allo “sputtanamento” gratuito di una famiglia basato sul niente.
Ma sono argomenti ai quali non voglio dare troppo peso, anche perché se un errore è stato commesso nei miei confronti, non voglio farmi male da solo, cioè non voglio che il mio equilibrio venga alterato per l’errore di un sistema sordo nel quale la testa non sa cosa fanno le braccia e che mi considera sicuramente come un numero e non come una persona.
Arriviamo a casa e trovo i miei gioielli (i miei figli), li abbraccio come non avevo fatto mai e sicuramente con un sentimento diverso, trovo mia suocera che scoppia in un pianto muto, intimo, liberatorio di chi scarica la tensione che ha accumulato durante giorni di sofferenze, saluto anche mio suocero che scuote la testa e dice: “Cose da matti”.
Salgo al mio appartamento e il telefono squilla in continuazione, sono gli amici, i colleghi che vogliono esprimere la loro solidarietà a me e alla mia famiglia, tutti increduli di quello che mi è capitato ed increduli della cecità dimostrata da persone che dispongono della libertà di ognuno di noi e della facilità con la quale hanno rovinato (almeno per un po’) la mia vita e di chi mi sta intorno.
La giornata finisce con una grande festa insieme ai nostri amici; amici che ci sono stati più vicini che mai, amici che si sono messi a disposizione in un momento delicatissimo dove l’equilibrio di una famiglia è stato messo a durissima prova non per sua volontà, in una vicenda imbarazzante dove vengono messi in dubbio i principi fondamentali che caratterizzano ogni PERSONA, dove nel caso specifico, io sono stato coinvolto perché sono il signor nessuno, cioè il mio nome non faceva clamore, ma l’appartenenza alla Guardia di Finanza dava enfasi ad un arresto di un FINANZIERE CORROTTO. Così dipinto agli occhi dell’opinione pubblica per l’ingordigia di chi mi ha voluto mettere in un calderone per “fare numero”, per farsi bello, per riempirsi la bocca o per fare carriera.

Questa brutta storia mi fa riflettere in maniera molto più profonda su come la società in cui viviamo è basata su INTERESSI e non su PRINCIPI, interesse di far carriera calpestando il principio di onestà, cioè non si guarda in faccia nessuno per arrivare ad un traguardo a qualunque costo; la parte del leone la fa il DENARO, fulcro di ogni interesse. Tutto si muove intorno ai soldi; soldi che dovrebbero far stare meglio, ma che per la maggior parte delle volte complicano la vita, o meglio mettono nelle condizioni le persone di non sentirsi a posto con loro stesse se non hanno i soldi per potersi permettere un’automobile costosa, un giubbotto firmato, un telefonino alla moda. Le persone non dovrebbero essere “pesate” in base al nome o ai soldi che hanno, tutti dovremmo essere considerati PERSONE DI SERIE A, invece questo nel mio caso non è accaduto e secondo me questa è stata una mancanza gravissima nei confronti miei e della mia famiglia.
Nelle notti successive al mio ritorno a casa, il pensiero di quello che mi era capitato mi ha tenuto molte volte sveglio, sarà stata la tensione e forse anche la CERTEZZA che mi è stata tolta: DORMI TRANQUILLO SE NON HAI NIENTE DA NASCONDERE. Sicuramente questa tranquillità mi è stata tolta, anche se il mio carattere porta a cancellare dai miei ricordi le vicende che possono togliermi la serenità che ho sempre avuto.

L’umiliazione continua quando, a fronte di un “ERRORE GIUDIZIARIO” anche la burocrazia (?!) ci mette lo zampino. La mattina di lunedì 25 settembre mi reco al lavoro pensando che, anche se c’era stato un grave errore nei miei confronti, io dovevo ritornare visto che non ero malato oppure in licenza; l’accoglienza da parte dei colleghi è stata molto calorosa con parole di solidarietà e stima nei miei confronti e con la consapevolezza da parte di tutti che quello che era successo a me, sarebbe potuto succedere ad ognuno di loro.
La burocrazia (?!) dicevo, per il fatto che, visto che in occasione del mio arresto mi era stata ritirata la pistola ed il tesserino in quanto ero stato sospeso obbligatoriamente dal servizio, pensavo che al mio ritorno tutto sarebbe immediatamente tornato come prima e io avrei potuto riprendere il servizio, certo con un umore diverso, ma come se non fosse successo niente, invece così non è stato, infatti alla mia richiesta fatta ai superiori di sapere come dovevo considerarmi, cioè, in servizio o no, le indicazioni da parte dell’ufficio che tratta questo tipo di pratiche ed in particolare da una persona, sono state, il giorno 27 settembre 2006, che dovevo essere ALLONTANATO DALLA CASERMA, non ci potevo stare.
Certo è che anche questa “angheria” poteva essere risparmiata a chi aveva già PAGATO un conto che non doveva essergli presentato. Purtroppo la prassi tante volte umilia ulteriormente le persone, in concreto, nel mio caso, sentirsi dire dalla propria moglie “ perché non vai a lavorare?” e non sapere il perché di questa situazione a dir poco da incubo dove nessuno si espone per paura di prendersi delle responsabilità.
La mia “vacanza forzata” dura fino al 18 ottobre 2006, quando vengo contattato dalla caserma in quanto devo sottopormi alle visite all’ospedale militare per la mia riammissione in servizio, visite alle quali mi sottopongo poco volentieri perché sono un’ulteriore umiliazione a cui vengo sottoposto per l’errore di altri.
Nell’ultimo giorno delle visite, ciliegina sulla torta, incontro “il collega (?!)” che mi ha messo nei guai.
Ebbene sì, da parte dell’amministrazione abbiamo avuto tutti lo stesso trattamento (almeno fino a questo punto), l’allontanamento e la riammissione in servizio con la stessa tempistica a prescindere dalle diverse ed evidenti responsabilità e questo non mi ha fatto per niente piacere, siamo stati trattati allo stesso modo di chi ha ammesso le proprie responsabilità e questo non premia chi si è comportato onestamente.
Intanto il giorno 19 ottobre la mia pratica viene ARCHIVIATA.
Il giorno 23 ottobre rientro a tutti gli effetti al posto di lavoro.
Infine voglio dire che per scrivere questa lettera mi sono preso un bel po’ di tempo anche per capire e valutare a mente più serena l’evolversi degli eventi.
Posso dire che queste ultime righe le ho scritte poco prima di Natale e che sono ancora in attesa di ritrovare la normalità nell’ambito lavorativo, sono ancora in attesa, a distanza di quasi due mesi, delle password per accedere a tutte le banche dati che adoperavo per lavorare e che per prassi, mi sono state TUTTE tolte (compresa GDF NET), per cui non posso (anche se non mi sentirei sereno nel farlo) lavorare come prima.
Ogni giorno che passa riserva a noi uomini esperienze nuove e questa, che ho vissuto in prima persona, intendo utilizzarla come aiuto a valutare in maniera più seria le responsabilità a cui ogni giorno siamo sottoposti e a quanto siamo lasciati SOLI nei momenti in cui ci sarebbe bisogno di aiuto da parte di chi ha un minimo di POTERE.
Ad ogni modo vorrei far arrivare un semplice messaggio a tutti: tante volte siamo scoraggiati, demotivati e certe volte ostacolati nel fare il nostro lavoro, che dovrebbe far stare meglio tutte le persone oneste all’interno della società nella quale viviamo quotidianamente. Quando mi capita di pensare alle tante cose negative che non vanno, cerco di fare il mio lavoro ancora meglio pensando ai miei figli e a chi verrà dopo di noi e pensando che i problemi vanno risolti dal basso o almeno nelle possibilità che ogni umile uomo ha nel suo piccolo, tante volte anche esponendosi personalmente e che tutti lavoriamo per la stessa amministrazione per un Italia più pulita (lo dico con il cuore).

Scusate lo sfogo. Vorrei dire molte altre cose, ma mi trattengo.

PS. Un caro saluto anche a Mario e Santi coinvolti anche loro in questa assurda vicenda e che forse l’hanno vissuta ancora peggio di me.

BUONE FESTE A TUTTI

cricmarti@tin.it


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