PERCHÉ IN COMMISSIONE DIFESA DEL SENATO SI STA CERCANDO DI FAR PASSARE UNA “NON RIFORMA” DELLA RAPPRESENTANZA MILITARE (di Gianluca Taccalozzi)

giovedì 27 settembre 2007

Nel mio ultimo articolo avevo posto l’attenzione sui punti di criticità del comparto sicurezza e difesa e sull’ordinamento e l’organizzazione del Corpo della Guardia di Finanza, ponendo l’accento, tra l’altro:

 

·       sull’inadeguatezza e l’inefficienza dell’ordinamento militare applicato ad amministrazioni deputate a svolgere compiti di polizia;

·        sull’anomalia relativa alla disomogeneità dei compiti e degli ordinamenti delle amministrazioni che formano il comparto in argomento;

·        sulla sovrapposizione di attività e competenze delle varie Forze di polizia;

·        sull’inadeguatezza e sull’antidemocraticità dei sistemi di rappresentanza del personale militare.

 

Quell’elaborato rappresenta la fotografia della situazione in cui versa il Corpo e, d’ora in poi, ogni qual volta riterrò opportuno intervenire e il sito internet di Ficiesse vorrà ospitare le mie considerazioni su argomenti che ci riguardano, vi farò riferimento. 

 

In questo articolo affronterò il tema della riforma della rappresentanza militare (inevitabilmente collegata alla situazione organizzativo-strutturale del Corpo e, più in generale, del comparto) cercando di evidenziare gli interessi corporativi che muovono i soggetti interessati dalla riforma in parola e le ragioni, sostanziali e di opportunità, che condizionano le decisioni della politica.

 

In questi ultimi tempi è tornato di grande attualità il tema della riforma della rappresentanza militare (di cui alla legge 382/1978) all’ordine del giorno dei lavori parlamentari ormai da una decina di anni. Infatti, in Commissione Difesa del Senato è stato nominato un comitato ristretto per licenziare un testo base di riforma. Sia dai resoconti delle ultime sedute della Commissione Difesa del Senato, sia dai due incontri-conferenza che hanno avuto luogo qualche giorno fa a Modena (nell’ambito della Festa dell’Unità) e Roma (organizzato da AN), si è chiaramente capito come gli esponenti delle parti politiche più interessate all’argomento (DS-Margherita ed AN) abbiano trovato un punto di incontro (o di compromesso, fate voi) che sta a metà tra il d.d.l. Ramponi (AN) ed il d.d.l. Nieddu (DS). Un punto di incontro che dovrebbe scaturire in un testo base da portare in aula e che raccoglierebbe, in larga parte, gli intendimenti degli Stati Maggiori e dei Co.Cer. Esercito e Carabinieri. Il tutto non rappresenterebbe, di per sé, un elemento di anomalia. Ma se l’argomento si approfondisce, numerosi e rilevanti sono gli elementi di sconcerto che si riscontrano.

 

Vediamo innanzi tutto quali sono i principi cardini dei d.d.l. Ramponi e Nieddu. Eccoli:

 

1.   divieto di libertà di associazione (sindacale o meno) per i militari;

2.   rafforzamento degli attuali organi di rappresentanza;

3.   nessuna (o quasi) modifica del sistema di elezione e di responsabilità dei delegati;

4.   nessuna o quasi previsione di meccanismi tesi a rendere effettivamente i Consigli di Rappresentanza più efficienti ed efficaci e, soprattutto, autonomi e indipendenti dagli Stati Maggiori;

5.     riconoscimento pieno di parte sociale dei Co.Cer in sede di rinnovo contrattuale.

 

In pratica, è molto probabile che il futuro testo base che sarà licenziato dal Comitato ristretto, rappresenterà, di fatto, solo una ratifica legislativa di quanto i Consigli di Rappresentanza già si sono guadagnati sul campo (attraverso una interpretazione estensiva della Legge 382/1978), ma di fatto non realizzerà quella svolta democratica che la gran parte del personale aspetta.

 

Quello che però sconcerta maggiormente è il contesto e le modalità che hanno portato a questo intendimento comune di AN e DS-Margherita con la compiaciuta mediazione del presidente della Commissione, senatore De Gregorio. Infatti:

 

1.    il punto di incontro sopra accennato viene fatto passare come l’espressione della maggioranza delle rappresentanze militari (in virtù di una, quanto meno discutibile, votazione del comitato interforze all’uopo nominato per formulare una richiesta univoca sul tema), mentre, in realtà, tre Co.Cer su cinque (G.diF., Aeronautica e Marina) hanno rappresentato posizioni ben diverse (sindacato o quanto meno libertà di associazione);

2.    nel programma elettorale dell’Unione era previsto un radicale ”ripensamento” del sistema e in quello dei DS era espressamente previsto l’impegno per la libertà di associazione ai militari;

3.    nella precedente legislatura, un analogo Comitato ristretto elaborò un testo base che in pratica è lo stesso ripresentato in questa legislatura dal senatore Ramponi, testo che all’epoca fu fortemente contestato dal centrosinistra che oggi al contrario, contraddicendo come detto il loro programma elettorale, sembra aver cambiato idea.

 

In buona sostanza, si sta andando verso una “non riforma”.

 

Come detto, il testo che il Comitato ristretto si accinge a licenziare probabilmente accontenterà gli Stati Maggiori e qualche delegato Co.Cer che intende ritagliarsi più potere (come la piena rieleggibilità), mentre scontenta le aspettativa della gran parte del personale. Ciò in dipendenza di una classe politica abituata ad affrontare (o meglio non affrontare) i processi riformatori con un attenzione maggiore verso il consenso ed agli interessi corporativi rispetto all’interesse generale.

 

Ma perché si arrivati a questa soluzione? Quali sono le motivazioni (di sostanza e di opportunità politica) che inducono la politica a non riformare in modo serio la rappresentanza militare?

 

Proviamo a enumerarli:

 

1.     la potenza corporativa degli Stati maggiori, che vedono male una svolta democratica nella rappresentanza, in quanto vorrebbe dire dover dividere il potere con il personale o quanto meno con le rappresentanze dello stesso, un po’ come accade nel pubblico impiego contrattualizzato (ragione di opportunità politica);

 

2.     il fatto che si teme che sindacalizzare le amministrazioni militari possa significare perdere in termini di efficacia e di certezza di esecuzione dell’ordine centrale (e non di efficienza come al contrario affermano gli Stati maggiori), ciò anche in considerazione degli effetti poco soddisfacenti che la contrattazione ha prodotto nel pubblico impiego privatizzato, peraltro provocato dalla mancanza di responsabilità della classe politica e non già dalla riforma stessa (ragione sostanziale);

 

3.     il fatto che il tema della rappresentanza militare è avvertito da una parte nùinoritaria  del personale e dei delegati degli organismi (basti notare la poca attenzione che suscitano gli approfondimenti sul tema proposti da questo sito) e ciò fa riflettere la politica sull’opportunità di produrre una riforma della rappresentanza in termini di mancanza di consenso o, ancora peggio, in termini di interessi soli e propri dei delegati tesi all’ottenimento di maggiore spazio e potere (ragione di opportunità politica);

 

4.     il fatto che alle amministrazioni interessate siano assegnati compiti molto diversificati (difesa, sicurezza, polizia giudiziaria e addirittura polizia economica e finanziaria) e siano formate, per cultura e tipicità del lavoro, da personale con culture fortemente eterogenee. In dipendenza di ciò le ragioni delle resistenze ad una svolta democratica della rappresentanza sono molto più sostanzialmente giustificate per le amministrazioni che si occupano di difesa, laddove l’ordinamento militare risulta più idoneo e meglio difeso da una forte cultura della militarità. 

 

È chiaro che il problema della riforma o della mancata riforma della rappresentanza militare presenta aspetti molto importanti nell’ambito del comparto sicurezza e difesa, in quanto i Cocer sono gli interlocutori istituzionali attraverso i quali la politica acquisisce le istanze del personale militare. Quindi, le posizioni assunte dai Cocer vengono identificate come le posizioni della maggioranza del personale, cosa spesso non vera visto il sistema di elezione degli organismi in questione e la mancanza di seppur minime forme di controllo dei rappresentati sulle scelte dei rappresentanti (per non dire che dei dirigenti militari che nel contempo parte e controparte). Pertanto, un organismo democratico e indipendente è avvertito come un grave pericolo per l’autonomia ed il potere contrattuale degli Stati maggiori.

 

Ma veniamo ad analizzare gli argomenti che i soggetti istituzionali hanno portato all’attenzione della politica. Gli Stati maggiori hanno avanzato resistenze basate sul pericolo di sfaldamento dell’efficacia/efficienza delle amministrazioni militari. I Co.Ce.R favorevoli al sindacato, hanno invece basato le loro rivendicazioni sui diritti dei cittadini-militari.

 

È  proprio questa distonia di temi (efficacia/diritti) e il fatto che tra il personale non vi sia un interesse diffuso e condiviso su una riforma democratica della rappresentanza militare hanno prodotto e causato le conclusioni della politica sopra accennate.  Una politica che, come si usa fare in Italia, dà risposta solo a domande di breve periodo e di opportunità politica (atteggiamento che ha favorito ed alimentato i diffusi sentimenti di antipolitica si cui si parla molto in questi giorni) come: Mi conviene riformare democraticamente la rappresentanza militare? In quanti la vogliono davvero? Quanto consenso mi porterà alle prossime elezioni? Non è forse meglio dare qualche soldo in più in busta paga ed accontentare solo i delegati Co.Ce.R  riconoscendogli la piena rieleggibilità e qualche piccolo potere in più? Il cittadino cosa pensa, cosa sa  delle amministrazioni militari? Poco o niente, se non le notizie belle e l’apparenza di efficacia che si legge dall’informazioni proveniente dagli Stati maggiori.

 

Insomma, il ragionamento è questo: “Fare una riforma del genere non ci conviene politicamente perché non interessa alla maggior parte del personale militare e per niente al cittadino e forse non serve nemmeno al Paese. Molti dei delegati Co.Ce.R che ce lo chiedono lo fanno perché sono pseudo-sindacalisti alla ricerca di visibilità, mentre è utile che gli Stati maggiori continuino a disporre di un’ampia autonomia e possano comandare le amministrazioni senza gli intoppi del sindacato”.  Per cui: “riformare non riformando……” .

 

Veniamo alle conclusioni.

 

Già nel mio precedente articolo ho evidenziato i difetti di democraticità ed efficienza dell’attuale sistema di rappresentanza militare, trattando la questione in un ottica generale di efficienza, competitività e trasparenza del Corpo della Guardia di finanza e di tutto il comparto sicurezza e difesa. Già, perché il problema non risiede, a mio avviso, nella rappresentanza militare (ovvero nella domanda di fondo sindacato sì sindacato no), ma nell’idoneità dell’ordinamento militare per i compiti di polizia di sicurezza e soprattutto di polizia economico-finanziaria, ovvero nella riforma (separazione) del comparto sicurezza e difesa e nella riforma della Guardia di Finanza (ordinamento civile-speciale).

 

Questo è, a mio avviso il discorso di fondo che dovrebbe essere stimolato dalla politica, che interesserebbe al cittadino ed al personale (se adeguatamente informato), che dovrebbe trovare maggiore attenzione negli Stati maggiori e nei  Co.Ce.R.

 

Non a caso anche quando nel 1981 fu riformata l’amministrazione della sicurezza pubblica il riconoscimento dei diritti sindacali al personale non fu isolato ma inserito in una riforma più ampia che interessò l’intero ordinamento di quella istituzione. Ma quando il discorso si sposta su questi termini viene fuori un ulteriore interesse corporativo, anche all’interno del personale stesso, in quanto vi è un forte timore di smembramento della Guardia di Finanza, di paura del nuovo e di paura di perdere posizioni in qualche modo conquistate. Per cui ci troviamo in una situazione bloccata da interessi e veti incrociati che inevitabilmente scontenta un po’ tutti, ma soprattutto quella parte di personale (più competitiva ed impegnata) maggiormente bloccata dalle rigidità dell’ordinamento militare e poco rappresentata dagli organismi di rappresentanza ed il cittadino, nella sua qualità di fruitore del servizio pubblico e di contribuente.

 

GIANLUCA TACCALOZZI

(Componente del Comitato di coordinamento precongressuale della Sezione Ficiesse di Roma)

 


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